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Trump rilancia la corsa alle terre rare: ora punta ai fondali oceanici del Pacifico

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Dopo gli accordi con Ucraina e Congo per l’accesso alle terre rare, Donald Trump apre un nuovo capitolo nella sfida globale per le risorse strategiche. Il suo ultimo ordine esecutivo segna un cambio di rotta deciso: puntare ai fondali oceanici per assicurarsi i materiali critici indispensabili a tecnologia, difesa e transizione energetica.

La Clarion-Clipperton Zone, il nuovo Eldorado dei minerali critici

L’attenzione di Trump si concentra sulla Clarion-Clipperton Zone (CCZ), un’area remota tra Hawaii e Messico, considerata una delle più ricche riserve sottomarine al mondo. Nei suoi fondali si trovano noduli polimetallici ad alta concentrazione di cobalto, nichel e terre rare: risorse essenziali per batterie, veicoli elettrici e dispositivi elettronici. Secondo le stime, i depositi potrebbero superare i 500 miliardi di tonnellate.

Un ordine esecutivo per accelerare l’estrazione in acque profonde

L’ordine firmato da Trump ad aprile ha lo scopo di snellire le procedure per l’estrazione in acque profonde, mirando a ridurre la dipendenza dagli approvvigionamenti cinesi. In prima linea c’è The Metals Company, con sede a Vancouver, che da tempo mira a ottenere licenze operative nella zona. Il mercato ha già reagito: le azioni dell’azienda sono quasi raddoppiate nell’ultimo mese.

Mentre la Cina consolida il proprio dominio sulle miniere terrestri, Washington tenta la carta degli oceani: una strategia ambiziosa, ma rischiosa, che apre un fronte alternativo nella guerra delle materie prime.

Una filiera ancora incompleta: la dipendenza dalla Cina resta

Nonostante il potenziale minerario, gli Stati Uniti non dispongono di un’infrastruttura industriale autonoma per il trattamento delle terre rare. La raffinazione dei materiali più critici resta fortemente concentrata in Cina, che controlla oltre l’85% della filiera globale.

Il Center for Strategic and International Studies (CSIS) avverte che le restrizioni imposte da Pechino all’export di elementi chiave – come samario, gadolinio e terbio – potrebbero avere ripercussioni gravi sull’economia e sulla difesa americana. Il Pentagono ha già stanziato oltre 439 milioni di dollari per rafforzare la produzione nazionale entro il 2027, ma la transizione sarà lunga.

Fondali ricchi, ma giuridicamente contesi

Il progetto USA si scontra anche con problemi legali e diplomatici. La Clarion-Clipperton Zone rientra sotto la giurisdizione dell’International Seabed Authority (ISA), organismo dell’ONU istituito dalla Convenzione sul Diritto del Mare (UNCLOS). Ma gli Stati Uniti non hanno mai ratificato l’UNCLOS, rendendo la loro posizione in quelle acque legalmente ambigua.

Alcune aziende americane sostengono che Washington possa procedere comunque, in autonomia o attraverso partnership private. Una mossa che però rischia di violare le norme internazionali e alimentare tensioni geopolitiche. L’ISA ha chiarito che ogni attività nei fondali internazionali deve rispettare i regolamenti in vigore.

In questo scenario di incertezza, molti progetti sono fermi o ancora in fase esplorativa, mentre gli investitori attendono chiarezza normativa.

L’impatto ambientale della corsa agli abissi

Oltre alle questioni giuridiche e strategiche, emerge con forza il tema ambientale. La Clarion-Clipperton Zone è un ecosistema estremamente delicato, in gran parte ancora inesplorato. Scienziati e ONG lanciano l’allarme: l’estrazione in acque profonde potrebbe causare danni irreversibili alla biodiversità marina.

Tra i rischi evidenziati: dispersione di sedimenti, inquinamento acustico, rilascio di sostanze tossiche e distruzione di habitat sconosciuti. Crescono le richieste per una moratoria globale, almeno fino a quando non sarà chiara la reale portata degli impatti ecologici.

Diversi Paesi si sono già espressi contro l’attivazione prematura di attività estrattive, temendo che possa compromettere decenni di sforzi per la protezione degli oceani.

Il Pacifico, nuovo campo di battaglia geopolitico

Nonostante i rischi e le incertezze, il fondo del Pacifico si profila come la nuova frontiera strategica nella competizione tra Stati Uniti e Cina. Pechino ha già ottenuto diverse licenze di esplorazione nella CCZ e investe massicciamente nella ricerca oceanografica. Il lancio di un laboratorio sottomarino nel Mar Cinese Meridionale è solo l’ultimo segnale della sua ambizione.

Per Washington, la posta in gioco è doppia: ridurre la dipendenza cinese e conquistare un ruolo da protagonista nella corsa globale ai minerali critici. Ma il cammino è accidentato: tra ostacoli ambientali, vuoti normativi e limiti industriali, la sfida delle terre rare sottomarine è appena cominciata.

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